IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL FRIULI-VENEZIA GIULIA Sezione Prima Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 259 del 2017, proposto da M.M., rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Sbisa' e Mirta Samengo, con domicilio eletto presso il loro studio in Trieste, via Donota n. 3; Contro Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Trieste, presso la quale e', del pari, per legge domiciliato in Trieste, piazza Dalmazia n. 3; Per l'annullamento del decreto cat. 6F/00343 04-2017/P.A.S.I. dd. 4 luglio 2017 del Questore di Trieste, notificato il 7 luglio 2017, con il quale sono state respinte le domande di rinnovo del porto d'armi di fucile per lo sport del tiro e di rinnovo della Carta europea d'arma da fuoco, nonche' di ogni atto presupposto connesso e conseguente ivi incluso il preavviso di rigetto; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2018 la dott.ssa Manuela Sinigoi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; La vicenda fattuale Il ricorrente ha impugnato innanzi a questo Tribunale amministrativo regionale il decreto in epigrafe compiutamente indicato, con cui il Questore di Trieste gli ha denegato il rinnovo della licenza di porto di fucile per lo sport del tiro e della Carta europea d'arma da fuoco. Ai fini che qui interessano, espone d'essere stato titolare del porto d'armi per uso caccia dal 1992 sino ad oggi, ad eccezione di un'interruzione di circa un anno, nel periodo tra ottobre 1993 e settembre 1994, correlata alla rilevata esistenza di una (risalente) sentenza di condanna a suo carico per furto e simulazione di reato emessa dal Tribunale di Trieste in data 16 giugno 1976, con irrogazione della pena della reclusione di 10 mesi. In considerazione di tale sentenza di condanna, il Questore di Trieste gli aveva, infatti, revocato la licenza di porto di fucile e il prefetto decretato il divieto di continuare a tenere le armi e le munizioni. Chiesta e ottenuta la riabilitazione (ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Trieste in data 7 giugno 1994), riotteneva, tuttavia, «il libretto e la licenza di porto di fucile per uso caccia, poiche' riabilitato dal Tribunale di sorveglianza di Trieste con sentenza n. 1268/93 R. G. e n. ord. 748/94 del 7 giugno 1994», giusta verbale della Questura di Trieste in data 1° settembre 1994. Il prefetto, dal canto suo, revocava, previo parere della Questura, i decreti di divieto di detenzione di armi precedentemente emessi (decreto in data 5 settembre 1994). Da allora la licenza di porto di fucile gli e' stata sempre rinnovata, l'ultima volta in data 12 maggio 2011, sinche', a seguito dell'ultima istanza di rinnovo presentata in data 7 aprile 2017, gli e' stato notificato in data 6 giugno 2017 un preavviso di rigetto, col quale gli e' stato comunicato che la precedente condanna subita nel 1976 era da considerarsi ostativa al rinnovo. A nulla e' valso il contributo procedimentale offerto dal medesimo, dato che il Questore, con decreto in data 4 luglio 2017, gli ha denegato, in via definitiva, il rinnovo delle licenze e cio' sulla scorta di quanto stabilito dall'art. 43 del T.U.L.P.S. (« ... non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto...;») e dalla Circolare del Ministero dell'interno in data 2 agosto 2016, che ha recepito il parere n. 01620/2016 della Prima sezione del Consiglio di Stato, secondo il quale la riabilitazione «non ha rilievo su altre conseguenze giuridiche delle condanne» poiche' «gli effetti della riabilitazione si esauriscono nell'ambito dell'applicazione della legge penale salvo diverse, specifiche disposizioni di legge» e, inoltre, «a chi e' stato condannato per i reati previsti come preclusivi dal citato art. 43 non puo' essere rilasciata, e deve essere revocata se sia stata rilasciata, la licenza di porto d'armi senza che possa aver rilievo la conseguita riabilitazione». L'interessato ha, quindi, gravato il provvedimento lesivo innanzi a questo Tribunale, denunciandone l'illegittimita' per «Eccesso di potere per erronea interpretazione della Circolare del Ministero dell'interno n. 557/LEG/225.00 dd. 2 agosto 2016, per contraddittorieta' con precedente determinazione e difetto di motivazione, nonche' violazione di legge (art. 21-nonies della legge n. 241/1990) e dei principi in materia di autotutela» e per «Violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalita' in una applicazione non costituzionalmente orientata dell'art. 43 del T.U.L.P.S», nonche', successivamente, dato atto, in particolare in relazione al secondo motivo di gravame, dell'orientamento giurisprudenziale definito «evolutivo», del quale sarebbe espressione la sentenza del TRGA Trento n. 341/2016 (seguita dalla n. 287/2017 e, ancora, dalla sentenza del T.A.R. Piemonte, I, 11 gennaio 2018, n. 69), che ha confermato la bonta' del «principio secondo il quale, laddove il giudice penale non abbia provveduto all'applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 53 e 57 della legge n. 689/1981 o dell'art. 131-bis del codice penale perche' i benefici previsti da tali disposizioni non erano ancora stati introdotti nell'ordinamento all'epoca della pronuncia della sentenza di condanna, nulla osta ad una valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione dei benefici stessi da parte dell'Autorita' di pubblica sicurezza prima, ossia in sede di esame della domanda di rinnovo della licenza di porto d'armi, e da parte del Giudice amministrativo poi, ossia in caso di ricorso avverso il provvedimento di diniego del rinnovo della licenza motivato con esclusivo riferimento al carattere ostativo della condanna riportata per uno dei reati di cui all'art. 43, comma 1, del T.U.L.P.S. Del resto, diversamente opinando, si verrebbe a creare una ingiustificata disparita' di trattamento tra coloro che hanno concretamente potuto beneficiare delle predette disposizioni e coloro che invece non hanno potuto giovarsene solo perche' esse non erano ancora state introdotte nell 'ordinamento». Il Ministero dell'interno si e' costituito in giudizio con il patrocinio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Trieste per resistere al ricorso e invocarne la reiezione. La causa e' stata quindi chiamata e discussa alla pubblica udienza del 7 febbraio 2018. All'esito della Camera di consiglio che ne e' seguita, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, I sezione, ha pronunciato la seguente ordinanza. Il Tribunale ritiene, invero, sussistenti i presupposti per sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 43 del T.U.L.P.S, nella parte in cui, nello stabilire che «... non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: a) a chi ha riportato condanna alla reclusione ... per furto... », non consente di apprezzare la risalenza nel tempo del fatto costituente reato, la sua concreta e attuale gravita' anche con riguardo alla lesivita' del bene giuridico protetto e la successiva condotta di vita tenuta dal soggetto interessato, rendendo, peraltro, oltremodo violativa dei principi di eguaglianza, proporzionalita' e ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione l'automatica ostativita' anche in confronto a condotte analoghe, commesse da altri soggetti in tempi piu' recenti, che, sotto il profilo penale, hanno avuto la possibilita' di fruire del piu' favorevole trattamento assicurato dalle disposizioni di cui agli articoli 53 e 57 della legge n. 689/1981 o dell'art. 131-bis del codice penale, ed evitato, sotto il profilo amministrativo, perpetue conseguenze pregiudizievoli, immotivatamente limitative della libera estrinsecazione della propria personalita'. Rilevanza della questione La questione e' rilevante per le seguenti ragioni. Al fine del decidere viene in rilievo l'art. 43 del R.D. n. 773/1931 che recita «Oltre a quanto e' stabilito dall'art. 11 non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: a) a chi ha riportato condanna alla reclusione per delitti non colposi contro le persone commessi con violenza, ovvero per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; b) a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della liberta' personale per violenza o resistenza all'autorita' o per delitti contro la personalita' dello Stato o contro l'ordine pubblico; c) a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi. La licenza puo' essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non puo' provare la sua buona condotta o non da' affidamento di non abusare delle armi». La fattispecie in esame ricade nell'ambito di applicazione del disposto di cui alla lett. a) della norma soprariportata e, secondo il suo tenore letterale, il ricorso dovrebbe essere respinto poiche' il ricorrente ha riportato una condanna alla reclusione per furto. Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione di legittimita' costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio avrebbe un esito diverso, in quanto, per l'appunto, la riconosciuta incostituzionalita' in parte qua della norma oggetto di applicazione determinerebbe l'annullamento del diniego di rinnovo della licenza di porto di fucile per lo sport del tiro e della Carta europea d'arma da fuoco opposto al ricorrente quale effetto automatico della condanna riportata. Il Collegio ritiene opportuno dare preliminarmente atto dei difformi orientamenti espressi in tema di interpretazione dell'art. 43 T.U.L.P.S. dal giudice di appello nella sentenza Consiglio di Stato, sezione III, 14 febbraio 2017 n. 658 (resa in riforma della sentenza n. 484/2016 del T.A.R. Piemonte) e nella sentenza della stessa Terza sezione 17 novembre 2017 n. 5313, (resa a conferma della sentenza del T.A.R. Piemonte n. 839/2016). Nella prima pronuncia - come ricordato dal T.A.R. Piemonte in recente sentenza 11 gennaio 2018, n. 69 - «il Consiglio di Stato ha affermato che la condanna per uno dei reati indicati all'art. 43, primo comma, lettere a), b), c) genera una preclusione assoluta a essere titolare di un'autorizzazione al porto di arma e vincola l'Amministrazione a negare o revocare il porto dell'arma. Si tratta di speciale incapacita' ex lege al rilascio o al rinnovo, tale da non poter essere superata sic et simpliciter dalla mera riabilitazione dell'interessato, da cui discende l'impossibilita' indefettibile e non modificabile che il futuro comportamento dell'interessato superi la inaffidabilita' sull'uso dell'arma in possesso. Nella pronuncia successiva, il Giudice di appello ha sostenuto che l'applicazione dell'art. 43, TULPS non possa avvenire in violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzione di rango costituzionale e che debba essere privilegiata un'interpretazione teleologica della norma conforme ai principi costituzionali, con la conseguenza che l'Amministrazione, nel compiere la propria complessiva valutazione in ordine alla affidabilita' nel possesso di armi, non possa non tener conto anche della sussistenza di altri elementi, che denotano favorevolmente la personalita' dell'interessato con carattere di attualita'. Cio' comporta che la preclusione prevista dall'art. 43 T.U.L.P.S. per il possesso di armi e munizioni in capo ai soggetti, che abbiano subito le indicate tipologie di condanne, non possa essere automatica, ove ragionevolmente altri elementi attuali della personalita' dell'interessato, quale il lungo tempo intercorso rispetto all'epoca del commesso reato senza la commissione di ulteriori illeciti penali (corroborato nelle sue positive implicazioni dalla intervenuta riabilitazione), depongano per lo stabile ripristino in capo al soggetto medesimo delle richieste condizioni di affidabilita' nel possesso di armi in corrispondenza ad una rinnovata e consolidata integrazione nel sano contesto socio economico in presenza di indizi univoci e concordanti in tale senso». Il contrasto giurisprudenziale non e', ad oggi, ancora sopito. Vi sono, infatti, pronunce (tra le piu' recenti C.d.S., III, 7 giugno 2018, n. 3435), che, secondo una fedele interpretazione letterale della norma che viene in rilievo, hanno ritenuto di aderire, per l'appunto, all'orientamento tradizionale, su cui poggia, sotto il profilo motivazionale, il diniego opposto al ricorrente (ovvero in senso conforme al parere del Consiglio di Stato, sezione I, 11 luglio 2016 n. 1620) e altre (come quella della I sezione del T.A.R. Piemonte da cui e' stata tratta la su riportata «sintesi» degli opposti orientamenti o la piu' recente n. 648 del 25 maggio 2018; T.R.G.A. Trento, sezione unica, 24 ottobre 2017, n. 287; C.d.S., III, 1° giugno 2018, n. 3303, che, pur affrontando la particolare ipotesi dell'esercizio del potere di autotutela, lascia pur sempre spazio ad apprezzamenti di carattere discrezionale anche a fronte della sussistenza di un precedente ostativo), che, invocando talvolta anche i principi di ragionevolezza e di proporzione di rango costituzionale, vi si discostano, ritenendo, per l'appunto imprescindibili valutazioni di carattere discrezionale, laddove, in particolare, la condanna «ostativa» sia assai risalente nel tempo e sia, nel frattempo, intervenuta la riabilitazione. Il Collegio - che non ritiene di poter aderire tout court all'orientamento cd. «evolutivo», ostandovi, allo stato, la formulazione letterale della norma di cui e' stata fatta applicazione nel caso specifico, ma, al contempo, di non poter nemmeno seguire acriticamente l'orientamento tradizionale, che non condivide, laddove, per l'appunto, «perpetua» gli effetti amministrativi pregiudizievoli delle condanne contemplate dall'art. 43 del TULPS, senza tenere in alcun modo conto della loro risalenza nel tempo, della loro concreta e attuale idoneita' a sorreggere il diniego al rilascio del titolo autorizzativo richiesto (rectius il giudizio di pericolosita' che se ne puo' trarre in relazione al bene giuridico oggetto di tutela) e del reale e individuale percorso di vita effettuato, nel frattempo, dai soggetti che le hanno subite, in quanto siffatta soggezione appare, in questo come in altri campi dell'esperienza giuridica, estranea all'ordinamento positivo - altra soluzione non individua, pertanto, che quella di sottoporre la norma in questione al vaglio di costituzionalita' per le argomentazioni che si appresta ad esporre. Rammenta, infatti, che il giudice remittente ha la possibilita' di rivolgersi alla Corte costituzionale allorquando si trova di fronte all'alternativa di adeguarsi a un'interpretazione che non condivide o di assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata, come induce a supporre l'ultimissima pronuncia in materia emessa dal Consiglio di Stato (sentenza n. 3435/2018). Sulla non manifesta infondatezza della questione Il Collegio condivide, innanzitutto, le puntuali argomentazioni svolte dal T.A.R. Toscana, sez. II, con ordinanza in data 16 gennaio 2018, n. 56, laddove, nel sollevare analoga questione di legittimita' costituzionale, ha osservato, con riguardo al profilo della ritenuta violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, che «la ragionevolezza delle leggi e' corollario del principio di uguaglianza ed esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate, o congruenti, rispetto al fine perseguito dal legislatore. Si ha dunque violazione del principio laddove si riscontri una contraddizione all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito che costituisce un limite al potere discrezionale del legislatore, impedendone un esercizio arbitrario (...). Nel caso di specie, il dubbio di costituzionalita' riguarda una norma la quale pone un divieto assoluto ed automatico di concedere il porto d'armi a soggetti che sono stati condannati alla reclusione per un reato (il furto) che e' estraneo all'uso delle stesse e non incide, in astratto, sul loro utilizzo. La disposizione appare quindi eccedere lo scopo che si propone, consistente nella tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica sotto il profilo della verifica di affidabilita' dei soggetti cui viene concessa la licenza di portare armi. Si ricorda, a questo proposito, che nel nostro ordinamento esiste un generale divieto di girare armati, e l'autorizzazione a portarle ne costituisce eccezione la quale deve essere assistita da sufficienti garanzie circa l'affidabilita' nel loro corretto uso da parte del titolare della relativa autorizzazione. In particolare la sentenza di Corte costituzionale n. 440/1993, chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale delle previsioni dell'art. 11, T.U.L.P.S. in ordine ai poteri di diniego delle autorizzazioni di polizia a fronte dell'accertata insussistenza del requisito della «buona condotta», precisa che la facolta' di portare ed usare armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, ma e' eccezione al generale divieto di girare armati sancito dall'ordinamento, e tale deroga, per essere giustificata, richiede un preventivo e puntuale accertamento delle caratteristiche del soggetto richiedente il porto d'armi, per acquisire certezza in ordine alla sua idoneita' al loro uso e alla sua affidabilita' morale. Stando cosi' le cose, appare certo rispondente a tale finalita' effettuare uno scrutinio preventivo sulla vita e i precedenti del richiedente il porto d'armi per verificarne l'affidabilita'; non altrettanto, pero', puo' dirsi per un divieto automatico e generalizzato derivante da condanne penali dallo stesso subite a lunga distanza di tempo e nemmeno incidenti direttamente sull'utilizzo delle armi, come accade nel caso di specie. Ipotizzare l'esistenza di un simile divieto generalizzato ed assoluto, senza che all'autorita' amministrativa venga concesso alcun potere di valutazione discrezionale, appare eccessivo rispetto allo scopo della norma, tanto piu' nel caso di specie in cui, durante il rilevante lasso di tempo trascorso dal suo originario rilascio fino al suo diniego, il titolo e' stato sempre rinnovato. In tema di automatismo preclusivo la Corte costituzionale, con sentenza n. 202/2013, si e' pronunciata sulla legittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 18 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui la norma prevede un meccanismo automatico che impone all'Amministrazione competente il diniego di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno allo straniero che sia stato condannato per determinati reati. La Corte ha statuito che al legislatore e' riconosciuta un'ampia discrezionalita' nel disciplinare l'ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, in relazione alle esigenze di difesa nazionale e sicurezza pubblica sottese, e in questo ambito e' legittimo anche prevedere casi in cui, a fronte della commissione di reati ritenuti di una certa gravita' e particolarmente pericolosi per la sicurezza e l'ordine pubblico, l'Amministrazione sia vincolata a revocare o negare il permesso di soggiorno automaticamente e senza ulteriori considerazioni. In linea generale statuizioni di tal genere non sono di per se' manifestamente irragionevoli; tuttavia occorre che una simile previsione possa considerarsi rispettosa di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai sensi dell'art. 3 Cost., tra le opposte esigenze di tutelare l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e regolare i flussi migratori, da un lato, e di salvaguardare i diritti dello straniero riconosciutigli dalla Costituzione dall'altro. Nel valutare l'adeguatezza del bilanciamento tra questi valori, al fine del sindacato di legittimita' della norma, la Corte prosegue rilevando che gli automatismi procedurali sono basati su una presunzione assoluta di pericolosita' e devono quindi ritenersi arbitrari laddove non rispondono a dati di esperienza generalizzati, quando cioe' sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa». Nel caso di specie, al pari di quello oggetto del giudizio innanzi al T.A.R. Toscana, da cui e' originata analoga (e precedente) questione di legittimita' costituzionale, si puo' facilmente formulare quest'ultima ipotesi sulla scorta dei dati esperienziali desumibili dagli atti di causa: e' dimostrato che il ricorrente ha ottenuto il primo rilascio del porto d'armi nell'anno 1992 e i rinnovi si sono susseguiti senza soluzione di continuita', ad eccezione del periodo tra ottobre 1993 e settembre 1994, fino all'attuale istanza, senza che mai egli avesse dato causa ad alcun episodio connotato dal suo cattivo utilizzo. Ha, inoltre, sempre condivisibilmente osservato il T.A.R. Toscana che «sotto un profilo piu' generale ed astratto, poi, non appare facilmente giustificabile un automatismo preclusivo che colleghi il diniego dell'autorizzazione a portare armi alla commissione del reato di furto, il quale non e' collegato all'utilizzo delle stesse e che, pertanto, poco ragionevolmente puo' essere posto ex se a base del diniego dell'autorizzazione medesima. Tanto piu' appare ingiustificabile l'automatismo laddove, come nel caso di specie, il richiedente il porto d'armi abbia ottenuto la riabilitazione la quale presuppone che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta al fine di un giudizio prognostico sul suo futuro comportamento (art. 179, comma primo, c.p.)». A tutte le su riportate considerazioni, che il Collegio fa proprie, pare, peraltro, opportuno aggiungere anche quanto segue. L'automatica valenza ostativa di reati come quello che viene in rilievo nel caso in esame, peraltro di particolare tenuita', pare anche irragionevole e comunque violativa dei principi di eguaglianza e proporzionalita' avuto riguardo al trattamento decisamente piu' coerente con i valori di uno Stato democratico ora assicurato a fattispecie di corrispondente gravita' dall'art. 131-bis c.p., che consente, per l'appunto, di «schivare» le conseguenze amministrative pregiudizievoli che, per mero automatismo, continua, invece, a subire chi, come l'odierno ricorrente, e' stato condannato in epoca in cui non era ancora prevista l'esclusione della punibilita' per la particolare tenuita' del fatto. Risultato che, secondo le indicazioni applicative da ultimo fornite con Circolare 557/PAS/U/012843/10100.A(1) del 31 agosto 2017, il Ministero dell'interno ritiene conseguibile anche nelle ipotesi di sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria ai sensi degli artt. 53 e 57 della legge n. 689 del 1981 e successiva modificazione e integrazione. Al riguardo, ancorche' tale Circolare non assuma rilievo specifico nell'ambito del diniego opposto, in quanto successivamente emessa, il Collegio non puo', in ogni caso, trascurare di osservare che le indicazioni fornite appalesano viepiu' l'irragionevolezza dell'ostativita' prevista dalla norma sospettata d'incostituzionalita', in quanto, a ben osservare, il trattamento piu' favorevole sotto il profilo degli effetti di carattere amministrativo parrebbe riservato a coloro che, dal punto di vista temporale, sono maggiormente prossimi alla commissione del fatto-reato ovvero in sostanza a soggetti rispetto ai quali possono non risultare ancora disponibili apprezzabili ed effettivi riscontri in ordine all'avvenuto completamento del percorso rieducativo intrapreso ai fini della completa reintegrazione nel tessuto sociale e della piena accettazione, condivisione e rispetto delle regole. Viceversa, coloro che, come il ricorrente, hanno posto in essere una condotta illecita sotto il profilo penale in epoca assai piu' risalente, non avendo potuto usufruire degli istituti premiali di piu' recente introduzione, sono destinati a continuare a subire, in forza di meri automatismi, conseguenze pregiudizievoli di carattere amministrativo, anche laddove la loro (successiva) condotta di vita sia stata totalmente esente da ulteriori mende e costituisca di per se' prova tangibile di piena affidabilita'. Sempre con riguardo ai parametri costituzionali dianzi indicati, non pare nemmeno trascurabile la circostanza che la norma, per come formulata, non consente di valorizzare in alcun modo la intervenuta riabilitazione, sebbene non siano sconosciute all'ordinamento ipotesi in cui la riabilitazione produce effetti che vanno al di la' dell'ambito penale. Si pensi ad esempio all'art. 120, comma 1, del decreto legislativo 20 aprile 1992, n. 285, che riconosce espressi effetti favorevoli di carattere amministrativo ai provvedimenti riabilitativi, pur a fronte della commissione di reati di significativa offensivita' e che, con particolare riguardo alle esigenze di salvaguardare la sicurezza della circolazione, potrebbero indurre a dubitare dell'effettivo riconseguimento dell'affidabilita' necessaria per ottenere il rilascio di una nuova patente di guida. Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dianzi prospettata, la solleva d'ufficio, ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 dell'11 maggio 1983, e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo, al contempo, il giudizio in corso. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese e' riservate alla decisione definitiva.